È come una relazione tossica in amore quella che spesso abbiamo con il lavoro. Siamo stanchi, anche avviliti: dalla retribuzione, dai mancati “successi”, dagli avanzamenti di carriera posticipati, dall’assenza di riconoscimenti, dal totale disinteresse nei confronti della nostra vita privata. Siamo avviliti, ma non possiamo farne a meno: di lavorare, lavorare, lavorare. Perché il successo nella vita e l’accettabilità sociale sembrano essere determinati dalla nostra carriera: insomma, il lavoro oggi ha un ruolo decisamente ingombrante nelle nostre esistenze. Ma come siamo arrivati a questa situazione? Forse per colpa di quella che spesso è definita hustle culture, ovvero la dedizione totale (o quasi) al lavoro. Nata negli Stati Uniti, negli anni si è diffusa anche in Europa, con il risultato di aver portato sempre più persone a rischio di esaurimento nervoso proprio a causa del lavoro.
È finita l’epoca della dedizione totale al lavoro
Ecco, dopo anni in cui ci siamo dimostrati sempre impegnati, credendo che questo ci rendesse interessanti agli occhi degli altri, oggi, soprattutto le nuove generazioni di lavoratori, a questo gioco non ci stanno più. E molti hanno deciso di cambiare il proprio atteggiamento. Interessante è il dato che emerge da un report dello scorso anno di Gallup, secondo il quale solo il 14% dei dipendenti in Europa è davvero coinvolto sul lavoro, situazione che spesso dipende dal rapporto con il proprio capo, che dovrebbe essere empatico e complice. Sempre secondo lo stesso sondaggio sta venendo meno la predisposizione a dedicare completamente se stessi all’azienda, rimettendo al centro se stessi, le proprie relazioni e benessere. Un fenomeno che è stato registrato inizialmente da Tik Tok e poi dagli altri social, e che viene definito quiet quitting. Tradotto come “abbandono silenzioso”, si pensa che significhi che i lavoratori che abbracciano questo comportamento facciano il minimo indispensabile, non si impegnino per nulla e insomma siano dei lavativi. Questa interpretazione del quiet quitting però è impropria e in realtà il fenomeno racchiude ben altri valori.
Tutta la verità sul quiet quitting, a partire dal suo vero significato
Fare quiet quitting in realtà vuole dire semplicemente lavorare nei tempi e nei modi indicati dal proprio contratto, senza fare straordinari o assumersi responsabilità ulteriori. Si tratta di persone che decidono di adempiere alle loro mansioni lavorative, ma di non aderire alla cultura del “lavoro è vita” per guidare la loro carriera e distinguersi agli occhi dei superiori. Si attengono ai propri compiti e quando tornano a casa lasciano il lavoro alle spalle e si concentrano su attività di altri tipo: famiglia, amici, hobbies, etc.
È soprattutto la Generazione Z ad abbracciare questo nuovo modo di vivere (il lavoro) e per farlo stabilisce dei limiti che possono essere: non usare il cellulare aziendale fuori dall’orario d’ufficio, fare delle pause intenzionali durante il lavoro, prendere un impegno in pausa pranzo per sciogliere il senso del dovere che ci farebbe finire una riunione mentre mangiamo. “Se i limiti non li mette l’azienda, allora li mettiamo noi!” Questo è il pensiero di chi sceglie il quiet quitting: fare scudo contro il lavoro che invade la vita privata, definire i confini e riconsiderare il ruolo del lavoro.
I motivi di questo cambiamento di attitudine rispetto al lavoro possono essere molti: da un lato c’è certamente una disillusione nei confronti del mondo professionale e della possibilità di fare carriera, derivata dalle crisi che si sono susseguite dal 2008 ad oggi, che hanno reso il panorama del lavoro molto diverso e decisamente meno premiante rispetto al periodo del boom economico degli anni ’80 e ’90. I nuovi lavoratori pensano che convenga di più riprendere in mano la propria quotidianità e trovare soddisfazione al di fuori del contesto professionale. Ma non bisogna sottovalutare che il quiet quitting è anche un segnale di chi decide di mollare la presa perché si trova in una situazione di stress sul lavoro e sta avvicinandosi pericolosamente al burnout, fenomeno ormai dilagante. Con questo termine nato in ambito sportivo e poi trasportato in quello psicologico si indica uno stato di stress cronico lavoro-correlato, una vera e propria sindrome ormai riconosciuta anche dall’OMS. Si pensi che secondo un’indagine dell’EU-OSHA, più di quattro lavoratori su dieci (44%) affermano che lo stress da lavoro è aumentato a seguito della pandemia, e quasi la metà (46%) ha dichiarato di essere esposta a una forte pressione del tempo o a un sovraccarico di lavoro. Inoltre, secondo Bain & Company, i lavoratori italiani under 35 risultano i più stressati d’Europa e avvertono segnali da burnout.
Quiet quitting: cosa deve fare il datore di lavoro?
Che si tratti di una reazione per evitare il burnout o una scelta che deriva da una attitudine diversa al lavoro, con tutta probabilità il quiet quitting è qui per restare e l’epoca del lavoratore che si immola volontariamente a una disponibilità illimitata e costante è finita. Ma questo non è necessariamente un male per il datore di lavoro, che ascoltando da vicino le esigenze dei suoi dipendenti potrà avere con sé persone meno sull’orlo della crisi e nell’insieme più soddisfatte e quindi più creative, performanti e disposte a restare. Il concetto di “quiet quitting” infatti promuove un approccio attivo e consapevole per affrontare il sovraccarico e lo stress e porta la persona a dare importanza al proprio benessere mentale e fisico.
La chiave è, come accennato, l’ascolto. Ad esempio, il quiet quitting potrebbe anche essere un segnale che un dipendente non è felice nella sua posizione e non è detto che in questa situazione non si possa trovare una soluzione che soddisfi sia le necessità aziendali sia quelle del dipendente. Se l’”abbandono silenzioso” è invece il sintomo di una vicinanza al burnout, è chiaro che l’azienda deve intervenire per garantire la salute mentale del proprio lavoratore. Per convivere con questo fenomeno è chiaro come sia importante per i datori di lavoro non osteggiarlo ma comprenderlo e gestirlo.
Gestire il fenomeno del quiet quitting e del burnout: è possibile?
Per riuscire in questa impresa non semplice è importante avere gli strumenti adatti, sia culturali che pratici. In primis le aziende dovrebbero sviluppare una cultura aziendale in cui si promuova il benessere, l’importanza di prendersi del tempo per sé e di praticare l’autocura.
Al contesto culturale andrebbero affiancati delle azioni pratiche che spingano i dipendenti a ristabilire il bilanciamento tra vita privata e lavoro: e non è un caso se già oggi sempre più aziende stanno inserendo il wellbeing delle persone all’interno della propria strategia di responsabilità sociale d’impresa. Tra le azioni possibili per supportare il wellbeing dei dipendenti ci sono strumenti che aiutano le persone a prendere consapevolezza del proprio livello di stress – come ad esempio gli assessment game che altro non sono che videogiochi basati su parametri psicometrici che restituiscono un’idea dello stato di disagio e anche di eventuale burnout della persona (un esempio italiano è il gioco WorkDown lanciato dalla startup Game2Value). O ancora, strumenti che supportano i lavoratori nel loro benessere psico-fisico attraverso agevolazioni per lo sport, la nutrizione e la salute psicologica – e tra questi ci siamo noi di Fitprime con la nostra missione di promuovere uno stile di vita sano e attivo anche per i dipendenti delle aziende.
Tutto questo può contribuire a creare ambienti di lavoro più sani e dipendenti più sereni, e soprattutto un contesto il cui il quiet quitting possa finalmente essere visto e vissuto in termini positivi, ovvero come il ritorno a un mondo del lavoro meno frenetico, che favorisca momenti di pausa per ricaricare le energie, riflessioni su obiettivi e interessi personali, cura della salute fisica e mentale.
Sca