Maggiori rischi tra le detenute per l’Epatite C

“Il numero limitato di donne detenute dovrebbe incentivare una maggiore attenzione, ulteriori servizi, una gestione sanitaria proattiva. Non possiamo attendere che siano loro a chiedere aiuto” sottolinea il Prof. Sergio Babudieri, Direttore Scientifico SIMSPe

Donne al centro dell’attenzione nella Sanità Penitenziaria. Al 31 gennaio 2021 costituivano il 4,2% della popolazione carceraria, per un totale di 2.250 unità. Una componente minoritaria, ma in crescita e soprattutto con numeri più elevati degli uomini in termini di patologie. È quanto è emerso da uno studio ancora in corso d’opera, i cui primi risultati sono stati presentati in occasione dell’Agorà Penitenziaria 2021, XXII Congresso Nazionale della SIMSPe – Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria. Il sistema carcerario è estremamente complesso, ogni anno vi transitano oltre 100mila persone; recentemente è stato messo a dura prova dal Covid, che però, nonostante i timori iniziali, non ha provocato danni significativi. Per questo ora occorre riportare l’attenzione sulle altre patologie, in particolare quelle mentali e infettive.

DONNE IN CARCERE: I NUMERI DELL’EPATITE C – Lo studio realizzato da ROSE – Rete dOnne SimspE ha affrontato le infezioni da HIV e da Epatite C nelle donne detenute in diverse carceri italiane. ROSE è un network genere-specifico di SIMSPe sulla salute delle donne detenute, nato in occasione dell’Agorà Penitenziaria del 2016.

La coordinatrice responsabile è la Dott.ssa Elena Rastrelli, UOC Medicina Protetta-Malattie Infettive, Ospedale Belcolle Viterbo. La Rete studia la diffusione di HIV ed HCV nelle donne detenute, ma non si limita alle sole malattie infettive. In questa occasione, lo studio ha preso in esame 5 istituti penitenziari di 4 diverse regioni, che rappresentavano il 10% della popolazione femminile detenuta. I dati sono ancora preliminari, ma sono i più significativi mai prodotti a livello di popolazione femminile nelle carceri.

“Per quanto riguarda l’Epatite C, già i dati del Ministero della Salute evidenziano come le donne incarcerate avessero il doppio delle probabilità rispetto agli uomini e 14 volte rispetto alla popolazione generale di contrarre l’infezione – sottolinea Elena Rastrelli. – Le donne rappresentano una popolazione complessa da raggiungere, sparsa su tutto il territorio nazionale e spesso legata a storie di tossicodipendenza e prostituzione. Da novembre 2020, 156 donne detenute sono state iscritte allo studio. Di queste, 89 (il 57%) erano italiane: l’età media era di 41 anni; 28 di loro (il 17,9%) facevano uso di sostanze stupefacenti per via endovenosa. Su 134 è stato effettuato uno screening con l’innovativo test salivare per l’HCV, mentre per le altre è stato fatto per via endovenosa. Abbiamo riscontrato dati eloquenti: la siero prevalenza di HCV riguardava il 20,5%, una cifra leggermente superiore rispetto alla prevalenza riportata nella letteratura internazionale più recente, nonché di due volte superiore rispetto al 10,4% del genere maschile. Inoltre, le donne avevano un’infezione attiva in oltre il 50% dei casi”.

“La maggior parte delle pazienti risultate positive è stata colta di sorpresa: ciò evidenzia la necessità di un intervento mirato sulla popolazione femminile delle carceri, tanto più che oggi per l’Epatite C esistono terapie in grado di eradicare definitivamente il virus in poche settimane e senza effetti collaterali – aggiunge l’infettivologo Vito Fiore, Dirigente Medico Unità Operativa struttura complessa Malattie Infettive e Tropicali di Sassari. – Un altro dato interessante riguarda i pazienti coinfetti. Su 84 detenuti maschi trattati con il progetto di microeradicazione dell’HCV, solo 3 erano positivi anche all’HIV. Tra le donne trattate nell’ambito di questo progetto, invece, quelle positive anche al virus che causa l’AIDS erano ben il 25%. Inoltre, se tra gli uomini non vi erano casi di Epatite B, tra le donne ben 5, quindi il 21%, erano portatrici anche di questo virus. Possiamo dedurre che in carcere le donne sono più esposte degli uomini alle coinfezioni”.

Il numero limitato di donne detenute dovrebbe incentivare una maggiore attenzione, ulteriori servizi, una gestione sanitaria proattiva – evidenzia il Prof. Sergio Babudieri, Direttore Scientifico SIMSPe – In alcune carceri le donne sono poche decine di persone: in queste situazioni è possibile migliorare la sanità penitenziaria Non possiamo attendere che sia la detenuta a chiedere aiuto o ancor peggio commetta un gesto autolesionista; bisogna capire i bisogni dei singoli”.

LA DIFFERENZA TRA DISAGI MENTALI E PATOLOGIE PSICHIATRICHE – Un altro filone particolarmente significativo nella sanità penitenziaria è quello delle patologie psichiatriche, che rappresenta problema grave e talvolta sottovalutato. “La malattia mentale è una patologia identificabile secondo una codificazione standardizzata a livello mondiale – evidenzia Luciano Lucanìa, Presidente SIMSPe – Molte persone ne sono affette. Tuttavia, la parte patologica deve essere distinta da coloro che manifestano un disagio mentale all’arrivo in carcere come segno di risposta al limitato adattamento alla nuova condizione di vita: tra questi figurano coloro che avevano disturbi pregressi, tossicodipendenti, persone che vengono poste in un contesto difficile e totalmente inedito. Anch’essi devono essere curati e tutelati, ma bisogna fare una partizione tra ciò che è malattia e ciò che è disagio. L’aspetto clinico infatti riguarda malattie mentali come la schizofrenia o la paranoia, patologie per le quali un paziente deve andare dallo psichiatra e seguire una terapia specifica. Il disagio mentale è la risposta di una persona con problemi di base (depressione, tossicodipendenza…) alla privazione della libertà, che resta uno stress gravissimo. Questi ultimi sono quelli che fanno più notizia, perché hanno maggiore aggressività, minore tolleranza alla frustrazione, alle regole, alla coabitazione forzata, ma le categorie devono essere trattate con le rispettive modalità, senza fare confusione”.


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