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Dai timori per la crescita a quelli per l’inflazione…e ritorno

A cura di Jeffrey Cleveland, Chief Economist di Payden & Rygel

La scorsa estate, il mercato obbligazionario ha reagito all’aumento del tasso di disoccupazione, alla debolezza dei dati sulle buste paga e alla revisione al ribasso delle retribuzioni dei lavoratori statunitensi, spingendo i rendimenti del Treasury decennale ai minimi intra-annuali, fino a toccare il 3,61% in settembre. Come, all’epoca, alcuni analisti si sono interrogati sull’utilità di eventuali tagli dei tassi “di emergenza”, per scongiurare l’ipotesi recessiva, così oggi si sente sempre più spesso parlare di una nuova accelerazione dell’economia e di rischi di inflazione al rialzo. A nostro avviso, in entrambi i casi la reazione del mercato è stata prematura ed estrema: la crescita del Pil continua ad essere moderata (intorno al 2%), il mercato del lavoro sta rallentando e l’inflazione sembra ben avviata verso il target del 2% stabilito dalla Fed.

Ad oggi, con appena 41 punti base di tagli impliciti negli Overnight Index Swap, crediamo che il mercato stia sottovalutando il rischio di un ulteriore allentamento monetario. Per quanto riguarda l’inflazione, ci aspettiamo che il PCE core torni vicino al 2% entro il terzo trimestre su una base di variazione annuale e anche la componente abitativa del PCE core, che ha rappresentato un problema persistente, dovrebbe normalizzarsi nel corso del 2025. Sul fronte della crescita, la leggera tendenza al rialzo delle richieste di sussidi di disoccupazione, che questa settimana, con 1,9 milioni di domande, hanno toccato il record del ciclo, sembra suggerire rischi per la crescita al ribasso. Dopo la pausa di gennaio, la Fed potrebbe optare per nuovi tagli in marzo o maggio, avvicinandosi così al 3,25-3,50% entro la fine dell’anno.

Sul piano politico, le promesse del neopresidente Trump si sono finora tradotte in una lunga serie (ben 26) di ordini esecutivi (EO), come del resto era accaduto durante il suo primo mandato, quando la media di 55 ordini esecutivi all’anno aveva superato, anche se di poco, quella dei presidenti Usa del Dopoguerra (52 all’anno). Gli ordini esecutivi rappresentano una forma di policymaking meno vincolante e duratura, poiché si tratta di atti che possono essere annullati da un’azione legale, modificati attraverso un’iniziativa legislativa oppure semplicemente revocati dal presidente successivo. Inoltre, in base alla Costituzione degli Stati Uniti, i presidenti possono firmare solo gli EO inerenti a competenze del potere esecutivo. I provvedimenti più significativi, come quelli relativi alla riduzione della pressione fiscale, richiedono più tempo e impegno, soprattutto perché i repubblicani possono contare sul vantaggio di un solo seggio in più alla Camera rispetto all’opposizione democratica. Nel complesso, la prima settimana di presidenza Trump sembrerebbe avvalorare la tesi per cui i cambiamenti politici più rilevanti, abbastanza profondi da alterare la traiettoria dell’economia statunitense, richiederanno più tempo per essere definiti e messi in pratica.

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