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Volatilità e opportunità sui mercati emergenti con il ritorno di Trump

A cura di Christopher Preece, Macro Strategist & Investment Manager di Pictet Asset Management

 

Nonostante il nervosismo diffuso, i mercati emergenti potrebbero trarre vantaggio da una seconda presidenza Trump. Nel lungo termine, la sua strategia globale rischia di indebolire il dollaro, il che rappresenterebbe una buona notizia per gli attivi dei mercati emergenti. Contemporaneamente, la scarsa dinamica del debito statunitense, la cui situazione probabilmente peggiorerà con la nuova amministrazione, contribuirà a gettare una luce positiva sul debito sovrano dei mercati emergenti. Quasi sicuramente la volatilità aumenterà nel breve termine, soprattutto nei primi mesi dopo il suo insediamento, ed i disagi non saranno limitati solo ad alcuni Paesi. Se molti saranno pronti a fare concessioni di carattere commerciale, e non solo, per evitare i dazi promessi, altri, come ad esempio la Cina, probabilmente sopporteranno il peso di qualsiasi guerra commerciale scatenata da Trump.

Questo scenario sarà ben visibile sui mercati valutari: quanto più i dazi doganali saranno pesanti, tanto più è probabile un apprezzamento del dollaro, almeno inizialmente. Le svalutazioni delle valute altrove metteranno a dura prova gli stranieri che hanno contratto prestiti in dollari, in particolare quelli che risiedono nelle economie emergenti. È probabile che Trump sfrutterà i dazi doganali come arma negoziale per ottenere concessioni dai partner commerciali, ma è anche intenzionato a non far salire troppo il dollaro. La volontà di riportare l’industria manifatturiera negli Stati Uniti non deve andare a discapito della loro competitività a livello internazionale. Il risultato potrebbe essere un primo passo verso un nuovo accordo di gestione valutaria progettato per indebolire il dollaro. Un deprezzamento del dollaro, invertendo il ciclo rialzista degli ultimi 15 anni, si rivelerebbe il migliore catalizzatore positivo per la sovraperformance del reddito fisso dei mercati emergenti, innescando un ciclo virtuoso per la solvibilità degli emittenti del debito sovrano e corporate di questi Paesi e migliorando le dinamiche valutarie, dando un ulteriore slancio ai prezzi delle attività in generale.

Un altro elemento da considerare è il saldo di bilancio degli Stati Uniti: nonostante la sua promessa di rendere il governo più efficiente, Trump è però vincolato da ingenti voci di spesa governativa, come ad esempio quella per la previdenza sociale. Al contempo, farà pressione per ridurre le tasse. In base alle previsioni del Congressional Budget Office, gli Stati Uniti hanno accumulato un debito pari al 100% del PIL e, se tutte le politiche di Trump saranno effettivamente realizzate, l’onere del deficit potrebbe crescere ulteriormente fino a raggiungere il 143%. Una crisi del debito statunitense sarebbe devastante per gli asset a livello mondiale, ma è uno scenario estremo che difficilmente si verificherà nel breve termine. La continua erosione della posizione debitoria degli Stati Uniti, che li rende sempre meno interessanti per i risparmiatori a livello globale, dovrebbe essere positiva per i mercati emergenti, che presentano sempre di più gli attributi chiave per attrarre gli investitori. Questo perché i mercati emergenti sono sempre più importanti in un contesto mondiale. Tanto per cominciare, i mercati emergenti rappresentano il 58% del PIL globale. Il reddito fisso di queste aree ha una capitalizzazione di mercato complessiva di circa 7.000 miliardi di dollari, mentre le loro controparti azionarie valgono circa 7.600 miliardi di dollari. Complessivamente, queste classi di attività sono più radicate e relativamente liquide, ma sono ancora relativamente lontane da quelle delle controparti sviluppate.

Le economie emergenti sono destinate a crescere anche grazie ad altri fattori: le loro istituzioni sono sempre più credibili, le banche centrali, ad esempio, hanno reagito più rapidamente all’impennata dell’inflazione globale e da allora si trovano in una posizione migliore per allentare la politica monetaria; le metriche e i fondamentali del debito appaiono migliori rispetto a quelli dei mercati sviluppati; infine, queste economie hanno un onere del debito da sostenere meno gravoso, tassi di crescita più rapidi e prospettive demografiche migliori. Questi fattori stanno già iniziando a essere percepiti dagli investitori professionali, con i fondi sovrani che stanno orientando sempre più i loro portafogli verso i Paesi emergenti.

Inoltre, un costante deterioramento della posizione di debito statunitense tenderebbe anche a spingere verso l’alto il rendimento obbligazionario dei Treasury, e l’aumento dei tassi d’interesse statunitensi è storicamente negativo per gli attivi dei mercati emergenti. Tuttavia, i fondamentali del debito sovrano dei paesi in via di sviluppo hanno reso i loro mercati obbligazionari meno sensibili ai rendimenti statunitensi rispetto al passato. L’evoluzione di questi fattori, inclusa l’espansione della domanda interna di obbligazioni in valuta locale, suggerisce che saranno sempre meno sensibili anche in futuro. A seconda della portata delle misure protezionistiche messe in atto e dello sviluppo dei blocchi commerciali regionali, le economie emergenti dovrebbero beneficiare dei flussi che abbandonano gli asset statunitensi.

Le informazioni, opinioni e stime contenute nel presente documento riflettono un’opinione espressa alla data originale di pubblicazione e sono soggette a rischi e incertezze che potrebbero far sì che i risultati reali differiscano in maniera sostanziale da quelli qui presentati.

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