Indice: introduzione – biografie a confronto- le imprese – le due leggende – conclusione
Carlo Pisacane e Carmine Crocco vissero negli stessi anni, nacquero nello stesso Regno delle Due Sicilie, militarono nello stesso esercito, compirono le gesta per cui sono ricordati nelle stesse regioni, e negli stessi anni nacquero le leggende che li ricordarono. Ma rappresentano due Italie che non si incontrarono mai, anche se si cercavano intensamente. Pisacane rappresenta l’Italia mazziniana, democratica e tendenzialmente socialista, che cerca il popolo per riscattarlo dalle millenarie oppressioni: un’Italia colta e progredita, imbevuta di nuovi ideali, in contatto stretto e continuo con tutta l’Europa più avanzata.
Carmine Crocco, invece, rappresenta il popolo: i contadini (meridionali e non), la gente che non sa leggere, quelli che sfacchinano dall’alba al tramonto per un tozzo di pane, sempre in lotta con la miseria e con la prepotenza dei ricchi e potenti, persone che non hanno mai visto nulla al di fuori dei propri campi e paesi, e che vorrebbero riscatto e giustizia ancora prima che prosperità.
L’Italia dei Crocco cerca, quindi, il riscatto che l’Italia dei Pisacane voleva offrire al popolo. Eppure queste due Italie che si cercavano non si trovarono: l’una rimase ostile all’altra, l’una gridando alla libertà, alla democrazia e al laicismo; l’altra invece fedele al re, al vecchio ordine delle cose, alla Chiesa.
Nel presente articolo si cerca di trovare le motivazioni di questo mancato incontro, confrontando Pisacane e Crocco nella misura in cui questi possono incarnare le due Italie.
BIOGRAFIE A CONFRONTO
Carlo Pisacane nacque a Napoli nel 1818 da nobile famiglia, sia pure alquanto decaduta. Fu avviato alla carriera nell’esercito frequentando la Nunziatella, prestigiosa accademia militare tuttora esistente. Entrò quindi in servizio nell’esercito delle Due Sicilie come ufficiale.
Carmine Crocco nacque a Rionero nel 1830 in una famiglia contadina: lavorò come bracciante o pastore fino a che non fu chiamato al servizio militare (obbligatorio, non volontario) nell’esercito nel 1848. Aveva avuto l’opportunità, cosa allora assai rara per uno del suo ceto, di imparare da uno zio a leggere e scrivere, ma sostanzialmente restava una persona del tutto ignorante.
La carriera militare di Pisacane fu breve: di carattere ribelle e anticonformista, fu costretto a fuggire dal regno per una questione di donne.
Anche la carriera militare di Crocco fu breve: partecipò ad alcune azioni militari in Sicilia, fu a Gaeta, divenne anche caporale, ma poi uccise un signorotto che aveva offeso sua sorella. Dovette fuggire, fu arrestato, condannato, poi evase: non gli restò quindi che diventare uno dei tanti briganti che infestavano i monti del regno.
Pisacane, invece, riparò all’estero, a Parigi e a Londra, ed entrò in contatto con la cultura e con gli ambienti più colti e moderni europei. Divenne così un ardente rivoluzionario mazziniano e tornò in Italia per partecipare alla Prima Guerra di Indipendenza e alla difesa di Roma del ’48.
Avvicinandosi sempre di più al socialismo, Pisacane progettava una rivoluzione che partisse dal popolo e non da ambienti borghesi moderati e dalla monarchia sabauda.
LE IMPRESE
Pisacane progettò una spedizione che sollevasse i contadini miseri e oppressi, una vera rivoluzione, veramente democratica, cioè “del popolo”. Volle credere che i moti che gli erano stati segnalati avessero una qualche consistenza: partì con un pugno di compagni, arrivò a Ponza, liberò i detenuti (di cui solo alcuni erano politici) e con essi sbarcò a Sapri. Risalendo i monti verso l’interno, si aspettava folle di contadini acclamanti e invece trovò solo ostilità e diffidenza. Fu accolto solo da qualche borghese liberale: uno di essi, Federico Romano, lo ospitò nel suo palazzo, a Padula, tentando peraltro di dissuaderlo dal suo proposito. Al primo scontro i suoi compagni raccogliticci furono uccisi, si arresero o si dispersero.
Con pochi superstiti, Pisacane fuggì, ma presso Sanza quei contadini, su cui sperava per la rivoluzione, lo assalirono con armi di fortuna e li massacrarono: solo qualcuno riuscì fortunosamente a scampare e fu consegnato ai gendarmi del re. In realtà, furono scambiati per briganti, e in effetti molti degli uomini che erano con lui erano delinquenti comuni, che Pisacane volle credere di poter trasformare in rivoluzionari con un atto di fede.
Negli stessi anni, non molto distante, Carmine Crocco faceva il brigante, come tanti altri: da secoli, nel Regno di Napoli e altrove, un po’ dappertutto. Ma improvvisamente grandi avvenimenti sconvolsero il Regno di Napoli e la sua vita. Arrivavano dalla Sicilia i garibaldini.
Nel 1860 anche Crocco aderì alla causa della rivoluzione, arruolandosi nelle file garibaldine. Ma non si trattava, come nel sogno di Pisacane, della trasformazione di briganti in patrioti: Crocco cercava semplicemente la grazia sovrana che gli era stata promessa, unico sbocco possibile per un brigante per sfuggire alla forca. Dopo aver combattuto al Volturno, a Crocco fu però negata la grazia promessa. I sostenitori di Garibaldi erano tutti borghesi (galantuomini) che non potevano perdonare a un brigante di averli taglieggiati e assassinati. A Crocco non rimase allora che tornare a essere un brigante.
Fino ad ora, quindi, una normale storia di brigante: però a questo punto esplode il fenomeno del brigantaggio postunitario.
Il nuovo assetto politico portato dai garibaldini e dalla monarchia sabauda, a dispetto dei sogni mazziniani e garibaldini, si risolveva sostanzialmente in un affare per la borghesia: i galantuomini erano quelli che avevano cultura per capire i nuovi principi, che avevano la capacità di costituire la struttura della nuova amministrazione. Nel Sud, da sempre teatro di lotta fra proprietari e contadini (cappelli e coppole, come si diceva), il nuovo stato di cose fu subito interpretato (anche giustamente) come una vittoria dei galantuomini (borghesi) a tutto sfavore del popolo contadino.
La confisca delle terre ecclesiastiche toglieva ai poveri il soccorso che avevano tradizionalmente dalla Chiesa: se tutto andava male, c’era sempre la minestra che passava il convento. Le terre confiscate non furono in effetti distribuite ai braccianti, cosa che era avvenuta invece in Francia e aveva legato fortemente il mondo contadino alla rivoluzione. Finì invece per essere acquisita dai borghesi a poco prezzo.
Il servizio militare obbligatorio, al quale la maggior parte dei giovani meridionali non rispose affatto non avendo alcuna intenzione di servire un re sconosciuto e straniero, creò tutta una massa di renitenti costretti a diventare fuorilegge. In tutto il Sud contadino, il brigantaggio assume allora l’aspetto di una rivolta contadina a carattere economico e sociale che si orienta in senso borbonico.
Il governo liberale non poteva certo permettere che una parte del territorio sfuggisse al controllo statale ed acclamasse i Borbone. Non si poteva certo correre il pericolo del ripetersi degli avvenimenti del 1799, quando un esercito contadino (i Sanfedisti) soffocò la Repubblica Partenopea riportando i Borbone sul trono. Quindi la repressione fu decisa, anzi spietata.
Si parla della repressione di un esercito italiano (o piemontese) contro un popolo in rivolta: in effetti si trattò anche di una specie di guerra civile fra i borghesi, tutti o quasi ormai solidali con il nuovo assetto sabaudo che meglio tutelava i propri interessi, e un mondo contadino in rivolta.
In questo contesto Carmine Crocco colse la sua occasione. Le bande dei briganti si ampliarono e si diffusero oltre ogni limite precedente: Crocco arrivò ad avere al suo comando più di tremila uomini e a controllare una vasta regione montuosa dalla Basilicata all’Irpinia, fino alla Puglia.
Crocco, nei paesi conquistati, dichiarava decaduta l’autorità sabauda, istituiva una giunta provvisoria e ordinava che fossero esposti nuovamente gli stemmi borbonici. Ogni zona occupata veniva assegnata a un luogotenente. I borghesi liberali dovevano pagare un riscatto, molti furono uccisi, mentre le bande venivano accolte con simpatia dai ceti più poveri.
Nella primavera del 1861 occupò Lagopesole, Ripacandida e Venosa, mettendo in fuga la guarnigione locale della Guardia Nazionale Italiana. A Lavello fece istituire un tribunale per giudicare i liberali e il denaro delle casse comunali fu distribuito al popolo. A Melfi Crocco fu accolto trionfalmente.
Con l’arrivo di rinforzi dell’esercito, si spostò verso l’Avellinese, occupando moltissimi centri ed espandendosi anche nella vicina Puglia. A Crocco si unì José Borjes, un militare spagnolo inviato dal re di Napoli, che tentò, ma inutilmente, di trasformare le bande in un esercito regolare. Dovette quindi ritirarsi.
Continuarono così le scorrerie e i saccheggi, ma senza un piano preordinato e senza nessuna prospettiva politica. Resistette comunque ancora per anni, combattendo accanitamente contro la Guardia Nazionale e l’esercito regolare. Alla fine, tradito anche da alcuni suoi seguaci, nel giugno del 1864 fu sorpreso sulle rive dell’Ofanto dalle truppe del generale Pallavicini, che dispersero la maggior parte dei suoi uomini.
La maggior parte dei briganti furono catturati e giustiziati sommariamente; i più fortunati vennero condannati a gravi pene. Crocco allora fuggì nello Stato Pontificio: da lì avrebbe dovuto essere deportato in Algeria con la mediazione francese, ma la nave che lo trasportava fu intercettata dalle autorità.
Crocco comunque evitò la pena di morte, che gli fu commutata in ergastolo, e morì circa 40 anni dopo. Quello a cui partecipò Crocco fu un conflitto come quello sognato da Pisacane, ma a parti invertite: il popolo contro la libertà e la democrazia, e a favore del re e della Chiesa.
LE DUE LEGGENDE
Nacquero quasi subito due leggende opposte e parallele, l’una di Pisacane e l’altra di Crocco: non rievocazioni storiche veristiche, ma leggende che, pur partendo da spunti reali, raggiungono un universo simbolico che comunque ha il suo valore.
Quella di Pisacane fu il mito della classe colta, di quelli che sapevano leggere. La spigolatrice di Sapri di Mercantini, che lo celebrava, fu insegnata per oltre un secolo in tutte le scuole d’Italia. Attraverso quel carme, fintamente popolare, la leggenda di Pisacane fu trasmessa generazione dopo generazione: in tempi recenti il carme sembra essere sparito dalle scuole, nel clima di revisionismo del Risorgimento che si è andato instaurando.
Il mito di Crocco fu invece quello della povera gente, degli analfabeti, che ispirava racconti contadini giunti fino ai nostri giorni: dopo oltre un secolo dagli avvenimenti, è stato riscoperto dalla cultura ufficiale e rilanciato dai movimenti neoborbonici.
Ma si tratta sostanzialmente di due leggende, come dicevamo
Cominciamo ad esaminare quella di Pisacane partendo dalla versione più conosciuta ,quella de “La Spigolatrice di Sapri “
Riportiamo per maggiore chiarezza il testo :
La spigolatrice di Sapri
Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti! Me ne andavo un mattino a spigolare quando ho visto una barca in mezzo al mare: era una barca che andava a vapore, e alzava una bandiera tricolore.
All’isola di Ponza si è fermata, è stata un poco e poi si è ritornata; s’è ritornata ed è venuta a terra; sceser con l’armi, e a noi non fecer guerra.
Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!
Sceser con l’armi, e a noi non fecer guerra, ma s’inchinaron per baciar la terra. Ad uno ad uno li guardai nel viso: tutti avevano una lacrima e un sorriso.
Li disser ladri usciti dalle tane: ma non portaron via nemmeno un pane; e li sentii mandare un solo grido: Siam venuti a morir pel nostro lido.
Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!
Con gli occhi azzurri e coi capelli d’oro un giovin camminava innanzi a loro. Mi feci ardita, e, presol per la mano, gli chiesi: – dove vai, bel capitano? – Guardommi e mi rispose: – O mia sorella, vado a morir per la mia patria bella. – Io mi sentii tremare tutto il core, né potei dirgli: – V’aiuti ‘l Signore! –
Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!
Quel giorno mi scordai di spigolare, e dietro a loro mi misi ad andare: due volte si scontraron con li gendarmi, e l’una e l’altra li spogliar dell’armi.
Ma quando fur della Certosa ai muri, s’udiron a suonar trombe e tamburi, e tra ‘l fumo e gli spari e le scintille piombaron loro addosso più di mille.
Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!
Eran trecento non voller fuggire, parean tremila e vollero morire; ma vollero morir col ferro in mano, e avanti a lor correa sangue il piano; fin che pugnar vid’io per lor pregai,
ma un tratto venni men, né più guardai; io non vedeva più fra mezzo a loro quegli occhi azzurri e quei capelli d’oro.
Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!”
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Prescindiamo dalle obiezioni più ovvie: da Sapri non si può certo vedere Ponza, da Sapri alla certosa di Padula occorsero vari giorni di cammino, non ci furono epiche battaglie e simili altri errori. Solo in particolare notiamo la figura dell’eroe biondo e con gli occhi azzurri, tipico aspetto delle saghe nordiche che poco si adatta a un meridionale come Pisacane (che in realtà aveva capelli e occhi scuri). Licenze poetiche, possiamo dire.
Però è proprio l’andamento essenziale degli avvenimenti che viene falsato profondamente. I contadini non videro Pisacane con gli occhi romantici delle saghe nordiche, ma con occhi di contadini meridionali, naturalmente. Per quegli occhi, il gruppo di Pisacane era composto da briganti, ma più pericolosi di quelli con i quali comunque essi erano abituati a convivere: erano non solo briganti, ma anche nemici della religione, del Regno, di tutto quello che ad essi sembrava bene e giusto. E infatti li attaccarono e li annientarono. Non fu l’esercito borbonico a massacrarli dopo epiche battaglie fra il cordoglio e l’ammirazione del popolo, come la leggenda faceva credere.
Nella mente di generazioni di italiani, quindi, si formò la leggenda di un Pisacane acclamato dal popolo che combatteva contro un tiranno odiato. Nulla di questo era avvenuto nel Cilento nel 1857.
Qualche anno dopo sorgeva il mito di Crocco, difensore dei poveri contro le prepotenze dei ricchi. In realtà, i briganti erano sempre stati visti con un certo favore dal mondo contadino. I briganti erano essi stessi dei contadini che erano diventati fuorilegge per aver commesso un grave reato: a volte avevano agito per motivi di onore, sentito in quei tempi come un dovere supremo, a volte si erano semplicemente ribellati alle prepotenze dei possidenti. I briganti prendevano di mira i ricchi perché, ovviamente, erano quelli che potevano pagare, e spesso donavano anche ai poveri: in fondo, i contadini vedevano nei briganti uno di loro.
Il brigantaggio postunitario ampliò questo atteggiamento: i briganti, per la povera gente, erano quelli che si ribellavano ai soprusi dei borghesi. Poco importava se fossero borbonici o sabaudi: erano sempre i signori che sfruttavano il lavoro dei contadini.
In realtà, però, anche questo è un mito. Crocco era un brigante, un assassino, un sequestratore, non aveva idee politiche particolari e men che meno concepiva un nuovo assetto dello Stato. Si trovò a incarnare, per qualche tempo, la rivolta endemica del povero contadino contro l’ingiustizia.
Si tratta quindi sempre di due miti: tuttavia, bisogna riconoscere che quello di Crocco ha più aderenza con i fatti della storia rispetto a quello di Pisacane, che si muove in un mondo tutto ideale. Ma anche le idealità hanno la loro realtà, che può essere più forte di quella dei fatti.
CONCLUSIONE
Cerchiamo allora di comprendere perché le due Italie, pure così vicine nel tempo e nello spazio, non si incontrarono.
Un primo fattore può essere il più banale: parlavano letteralmente lingue diverse. L’Italia mazziniana parlava l’italiano e il francese, spesso anche l’inglese, e si diffondeva soprattutto per iscritto. L’Italia contadina parlava solo dialetti locali ed era analfabeta. Infatti, il canto di Mercantini era in italiano e si diffuse per oltre un secolo per iscritto. I racconti dei contadini sui briganti erano in dialetto e non vennero mai raccolti per iscritto fino a tempi recenti.
Un secondo elemento può essere indicato nell’orizzonte culturale. L’Italia liberale era un ramo di un’Europa liberale, alle cui correnti partecipava e faceva continuamente riferimento. Il contadino, invece, conosceva solo il suo orizzonte ristretto: i suoi campi, i suoi monti, il suo podere da coltivare. Tutto il resto del mondo era qualcosa di lontano, di sconosciuto; in genere non era mai stato nemmeno a Napoli. Pisacane si trovava più a suo agio a Parigi che nei paesi del Cilento, nei quali probabilmente non era mai stato. Così come Mazzini, Garibaldi e Cavour conoscevano il mondo, ma non erano mai stati a Napoli.
Di conseguenza, i Pisacane vedevano la possibilità di cambiamenti profondi perché la storia stava cambiando, e molto, in tutta Europa. Ma i contadini vedevano una realtà sempre uguale da generazione in generazione: non concepivano pertanto uno stato di cose politico e sociale diverso da quello che avevano sempre visto e che sembrava, per questo, immutabile. I contadini non chiedevano tanto un cambiamento, ma semplicemente giustizia: volevano essere retribuiti secondo giustizia, che non ci fossero prepotenze e sopraffazioni.
Contro le ingiustizie, essi credevano nell’intervento del re e della Chiesa. Ogni male veniva ricondotto non al re, ma all’operato dei signori che lo circondavano a Napoli o che stavano al paese. La rivolta contro i ricchi e potenti che li opprimevano era fatta in nome del re e dei principi della fede, come appunto avvenne nel ’99: i difensori della Santa Fede che rimettevano il trono al re contro i nobili che avevano tradito il re e la Chiesa.
Per i contadini, con la rivoluzione garibaldina, i proprietari avevano tradito il re e la Chiesa per opprimere ingiustamente il popolo. Il brigante, che era sempre un contadino oppresso che si era ribellato, poteva diventare un eroe, mentre l’esercito che appoggiava l’ingiustizia e il tradimento dei possidenti appariva come oppressore straniero da ricacciare dal Regno, perché il re e la Chiesa potessero tornare e far trionfare la giustizia.
Per il liberale, invece, la causa essenziale della povertà e dell’oppressione del popolo erano proprio il re (potere assoluto) e la Chiesa (che tradiva la sua missione spirituale).
Due visioni politiche che sembravano assolutamente ovvie e chiare a quelli che le condividevano: non c’era nessuna vera possibilità di dialogo.
D’altra parte, la libertà e la democrazia che i Pisacane offrivano a chi potevano interessare? Non certo ai contadini: che se ne facevano della libertà di stampa, se non sapevano leggere? La libertà di pensiero poteva significare che il male e il bene dipendessero dai punti di vista: ma un tale relativismo era quanto di più lontano potesse essere dalla loro mentalità, nella quale il bene era il bene e il male era il male.
Unico punto di riferimento restava sempre la Chiesa e la Santa Religione, le antiche tradizioni popolari. D’altra parte, solo i possidenti potevano votare, solo essi avevano la capacità culturale di ricoprire le cariche elettive: certo un contadino non poteva diventare deputato e nemmeno sindaco. La democrazia e la libertà erano un affare esclusivo dei possidenti, di quelli che avevano potuto studiare, che sapevano parlare quell’altra lingua che era l’italiano.
L’unico elemento veramente essenziale che i contadini avrebbero potuto comprendere era il possesso della terra. In Francia, infatti, il ceto contadino si era legato alla rivoluzione proprio perché aveva potuto appropriarsi delle terre feudali e temeva che, con il ritorno del vecchio regime, le avrebbe perse. Ma l’Italia liberale era molto lontana da una prospettiva del genere.
Quando i contadini insorsero, in Sicilia, Bixio represse duramente e inflessibilmente la rivolta. Garibaldi non poteva permettersi di impelagarsi in una lotta fra contadini e proprietari: ma proprio questo era il problema che interessava veramente i contadini.