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Il trionfo di Trump

 

Un po’ dappertutto nel mondo si parla di trionfo di Trump nelle elezioni americane e si mostra preoccupazione o speranza (dipende dai punti di vista) per l’apparire di una nuova era del mondo. Tuttavia, a vedere bene i risultati elettorali americani, non si può dire che Trump abbia ottenuto un grande trionfo. Se guardiamo al numero dei voti reali, Trump ha ottenuto pressappoco il 51% dei voti contro il 48% della sua avversaria Kamala Harris; diciamo che l’America si è spaccata, in effetti, a metà. La vittoria di Trump appare netta se si considera il numero dei grandi elettori: 312 contro 226 (in percentuale il 57% contro il 43%). Ma questo effetto è dovuto al sistema elettorale americano, erede di una concezione settecentesca, che in effetti attribuiva agli stati membri e non direttamente ai votanti la scelta del presidente: in realtà, accade spesso che il presidente eletto abbia avuto meno voti dello sconfitto.

Certo, però, Trump desta apprensione per quella che possiamo definire la sua imprevedibilità: come egli stesso spesso ha dichiarato, pare muoversi “di istinto”, cioè di impulso, senza tener conto delle conseguenze che i suoi gesti possono avere e senza ascoltare la folla di personaggi, di esperti nei vari campi che attorniano ogni capo di stato. Si veda, ad esempio, il drammatico episodio dell’assalto a Capitol Hill: nella migliore delle ipotesi, Trump non lo voleva, ma, pur tuttavia, esso fu conseguenza del suo gridare all’imbroglio elettorale di cui sarebbe stato vittima e della non accettazione della sconfitta. La democrazia si basa sul riconoscimento del risultato elettorale che legittima il potere.

L’idea che Trump apra una nuova era nella storia mi pare un po’ eccessiva: non si tratta certo della rivoluzione francese in Europa o di quella khomeinista nel mondo arabo; vi è sempre una continuità politica che difficilmente un presidente di una democrazia può rovesciare. In effetti, se è eccezionale la figura di Trump, non è altrettanto eccezionale la vittoria della sua linea politica. Come ha avuto modo di sostenere Rampini, il “trampismo” avrebbe vinto anche senza la vittoria di Trump: in effetti, anche Kamala Harris si era molto avvicinata alla sua linea, anche se con maggiore prudenza e misura, e anche lo stesso Biden ha seguito una politica che, tolti gli eccessi e le posture sceniche di Trump, in fondo non era poi tanto diversa.

Il punto essenziale è che in tutto l’Occidente si è manifestata e avanza quella che possiamo definire una nuova destra, che in alcuni paesi ha anche raggiunto il governo (Italia, Austria, Olanda). La sinistra, invece, pare perdere sempre più terreno e riesce a contrastare la nuova destra solo alleandosi con la destra tradizionale (come in Germania e nella UE). Il problema da porsi è allora perché mai la sinistra finisce con l’essere in declino.

Questo pare il problema essenziale.

È stato notato che Harris era sostenuta da tutto il cosiddetto star system, dal mondo di Hollywood, dagli intellettuali, dalle università prestigiose, mentre Trump trovava sempre più sostegno nelle classi meno abbienti, tradizionalmente legate alla sinistra. Il problema allora, a me sembra, è che la sinistra in tutto l’Occidente pare perdere il rapporto preferenziale che aveva con la parte più povera della popolazione, il ruolo cioè di garante e promotrice della giustizia sociale.

La sinistra, tradizionalmente, è la parte politica che, nella sua ragione d’essere, vuole affrontare i problemi dei più poveri. Un tempo si parlava di operai per intendere quelli più poveri, ma ora i più poveri sono invece i precari, i disoccupati, i sotto-occupati, quelli che non arrivano alla fine del mese, i poveri, quelli a rischio di povertà. Non sono più la maggioranza come un tempo, ma sono comunque milioni, molti milioni. Ma questi sono attratti sempre meno dalla sinistra. Oggi, i quartieri più poveri, le periferie degli emarginati, che esistono ancora purtroppo, non sono più roccaforti della sinistra, ma votano sempre più a destra: così nasce una crisi della sinistra.

Non possiamo, come spesso si fa, pensare che il voto di destra dei più poveri sia solo frutto di ignoranza, di propaganda populistica e simili sciocchezze. Nelle democrazie dell’Occidente la demagogia interessa tanto la destra quanto la sinistra e non possiamo pensare che quelli che non pensano come noi siano solo degli sciocchi o magari dei disonesti, come appare in tante prese di posizione degli intellettuali di sinistra.

Cerchiamo allora di analizzare le cause di questo stravolgimento storico.

Io credo che il punto essenziale sia che la sinistra sia passata dall’essere paladina dei più deboli a sostenere soprattutto altre istanze, quali le unioni gay, l’utero in affitto, il woke, i migranti. Sono problemi molto diversi e nulla ci fa pensare che chi non sa come arrivare a fine mese sia angustiato dal fatto che qualche riccone non possa ricorrere all’utero in affitto e dai diritti dei rifugiati politici: i problemi dei deboli sono affrontati più dalle destre, ed è per questo che votano sempre più a destra.

Allora il problema è: perché mai la sinistra mette in primo piano temi che interessano meno i più poveri?

Sono del parere che occorre rivedere il percorso della sinistra. La sinistra di governo, quella vincente in Occidente, considera che l’elemento essenziale sia il consumatore, senza il quale non esiste l’imprenditore. In termini semplici, nessuna impresa può esistere se non vende e non si può vendere se vi è povertà. Pagare bene i lavoratori è il modo migliore per sviluppare la produzione. Lo sviluppo delle imprese presuppone il benessere generale. Se gli operai sono pagati poco, chi compra poi i prodotti?

Si lascia da parte l’idea che il produttore e il consumatore abbiano interessi opposti. Certo, ci sono motivazioni etiche e sociali; però, il punto essenziale per cui lo Stato deve essere ‘sociale’ mi pare proprio questo. Infatti, nell’Occidente, da una parte si dà libertà all’imprenditoria, ma il 40% più o meno del reddito è gestito dallo Stato (che gestisce inoltre grandi imprese a regime privatistico). Questo modello è quello che ha reso i nostri paesi i più prosperi e anche liberi e democratici.

Ma dal ’68 si è lasciato da parte i problemi economici; si è cominciato a definire il benessere che le masse cominciavano ad assaporare come “consumismo” (consumismo è il vero fascismo, diceva Pasolini); si parlava di alienazione, di libertà sessuale, di omosessualità, di femminismo e così via. Questi problemi sono pure importanti, ma interessano poco chi non arriva a fine mese; sono problemi che interessano i più abbienti. La cultura di sinistra, allora, sostituiva gli aspetti economici con quelli dell’alienazione, del consumismo, dei gay ecc.: questo mi sembra il percorso ideologico.

Ora, il successo della destra presso i ceti più poveri è legato soprattutto all’accento che questa pone su due problemi fondamentali che interessano veramente quei ceti: la globalizzazione e l’immigrazione, sui quali invece la sinistra insiste su un appoggio ideologico che non tiene conto della situazione reale.

Per quanto riguarda la globalizzazione, essa non impoverisce l’Occidente globalmente. Non è che la crescita della Cina ha portato povertà all’Occidente, anzi, al contrario. Infatti, non necessariamente se uno stato diventa più ricco, un altro diventa più povero: questo era vero quando le risorse erano limitate, ma non quando il progresso tecnico ha reso possibile produrre più di quanto possiamo consumare. La globalizzazione, però, ha portato invece alla polarizzazione dei redditi: se un prodotto “made in China” costa la metà di quello prodotto in Italia, fa perdere lavoro a chi in Italia produce quel prodotto, che, in generale, sono i ceti meno abbienti.

Se produrre all’estero costa di meno, allora le imprese nazionali devono ridurre le spese limitando le retribuzioni e, se le norme politiche lo impediscono, si accentua la desertificazione industriale: la divaricazione dei redditi è soprattutto un effetto della globalizzazione. Infatti, con la globalizzazione solo una parte degli occidentali ha avuto aumenti dei redditi, a volte molto forti, ma un’altra parte teme di vivere peggio dei genitori, cosa che non avveniva da secoli in Occidente. Negli Stati Uniti, con Trump, si sono messi freni alla globalizzazione e si è avuto sviluppo e soprattutto piena occupazione, che è il mezzo veramente efficace per aumentare i salari.

Fenomeno simile abbiamo nell’immigrazione. Quando un secolo fa gli italiani arrivavano in America, sul molo stesso trovavano chi offriva loro lavoro. Il problema è che ora la disponibilità di posti di lavoro modesti è sempre più scarsa per lo sviluppo tecnico e quindi l’immigrato non trova più lavoro e fa concorrenza ai più poveri.

D’altra parte, osserviamo una cosa: la contrarietà agli immigrati è un fatto che attraversa tutto il mondo avanzato, dall’America all’Australia, passando per l’Europa e il Giappone, sia la sinistra che la destra che il centro. Tutti impazziti? Tutti sciocchi? Certamente no: è un fatto che ha le sue cause nella realtà concreta. L’emigrante che si accontenta di meno e ha meno pretese può essere una risorsa per i ceti abbienti, ma è un temibile concorrente per i meno abbienti: si pensi, per esempio, alle colf o alle badanti, ormai quasi tutte straniere; un’italiana non viene nemmeno più contattata.

Non ritengo nemmeno che possa risolvere i problemi dei paesi da cui proviene l’immigrazione, anzi probabilmente li aggrava. Ora, la sinistra sostiene ideologicamente l’immigrazione, mentre la destra si oppone. Allora c’è da meravigliarsi se ai Parioli si vota più a sinistra e alla Garbatella più a destra?

La sinistra, invece si dichiara per la globalizzazione, per l’immigrazione, e così non fa più gli interessi dei lavoratori più deboli. Allora la sinistra perde di vista i bisogni economici dei più deboli per perdersi in quelli che qualcuno definisce “cose da borghesi snob”, da radical chic. La nuova destra deve il suo successo proprio al freno alla globalizzazione e all’immigrazione, esigenza che poi, in effetti, anche la sinistra non può poi veramente non seguire.

 

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