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Italia, sistema previdenziale al collasso

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Nei giorni in cui si sta delineando il testo della Legge di Bilancio 2025, si accendono i riflettori su iniziative che possano supportare la previdenza complementare, dalle voci su un nuovo semestre di silenzio assenso per il conferimento del TFR alla previdenza integrativa, a soluzioni alternative a supporto dei lavoratori interamente contributivi.

Quel che è certo è che la tenuta dei conti previdenziali italiani è a rischio e la previdenza integrativa è ancora troppo poco diffusa: a rinnovare l’allarme è Moneyfarm, società di consulenza finanziaria con approccio digitale che, alla vigilia del mese dell’educazione finanziaria, fa il punto sullo stato dell’arte del sistema pensionistico in Italia.

Ad oggi il rapporto tra spesa pensionistica e PIL – uno degli indici con cui si misura la sostenibilità del welfare pubblico – è pari al 15,6%[1], percentuale che si stima salirà al 17% nell’arco di soli 15 anni. Colpa della crisi demografica, con il numero di nuove pensioni liquidate nel corso del 2023 che supera di gran lunga quello delle nuove nascite, arrivate a segnare un altro record negativo (379.339 neonati vs 519.879 neopensionati). In Italia, dunque, si fanno meno figli, si inizia a lavorare più tardi in un mondo del lavoro più precario e si vive sempre più a lungo: una combinazione di fattori che minaccia il patto intergenerazionale su cui si fonda l’intero sistema previdenziale pubblico. Mai come in questo momento si dovrebbe far strada tra i lavoratori la consapevolezza dell’importanza di aderire ad una qualche forma di previdenza complementare ma, secondo le stime di Moneyfarm, ad oggi solo un cittadino su quattro di età compresa tra i 30 e i 59 anni sta investendo in previdenza integrativa.

Degli oltre 24,2 milioni di cittadini nati tra il 1965 e il 1994, pari al 41% della popolazione italiana, quelli che hanno un fondo pensione sono solamente il 26%, mentre il restante 74% è occupato senza un fondo pensione oppure inoccupato. Di questo 26%, una parte potrebbe peraltro essere contribuente “silente”, cioè che non effettua versamenti (quasi il 28% degli iscritti, secondo la relazione annuale COVIP per il 2023). Anche l’uso del TFR per alimentare la previdenza integrativa è limitato: dal 2007 al 2023, solamente il 22% di tutto il TFR maturato è stato destinato ai fondi pensione. ll resto è rimasto nelle aziende o nel Fondo di Tesoreria dell’INPS, che raccoglie il TFR delle aziende con più di 50 dipendenti.

Il tasso più elevato di adesione alla previdenza integrativa si riscontra tra gli uomini di età compresa tra i 40 e i 59 anni, circa un terzo dei quali ha sottoscritto un fondo pensione (33,5% vs 21% delle coetanee donne). All’opposto, la situazione più critica è quella delle giovani donne tra i 30 e i 39 anni: qui il tasso di adesione alla previdenza integrativa crolla al 17%, contro il 27% dei coetanei uomini. Il motivo è da ricondurre non soltanto al fatto che le giovani lavoratrici aderiscano meno degli uomini ai fondi pensione (27% vs 33%), ma soprattutto al fatto che vi siano ben 17 punti di tasso di occupazione a separarle dai loro coetanei uomini. Nel complesso, infatti, le donne tra i 30 e i 59 anni hanno un tasso di occupazione medio del 63% circa, contro l’83% degli uomini, un divario che non può non riflettersi anche sulla pensione integrativa.

Previdenza al femminile: un quadro non proprio roseo

Quello della previdenza al femminile è un quadro a tinte tutt’altro che “rosa”, soprattutto se si considera che, a partire dai 50 anni, il tasso di occupazione continua a calare al crescere dell’età, arrivando a sfiorare il 48% per le donne tra i 55 e i 64 anni (contro il 69% dei loro coetanei uomini). Spesso, dunque, pur potendo beneficiare del requisito di pensione anticipata inferiore di un anno (41 anni e 10 mesi vs 42 anni e 10 mesi per gli uomini), le donne non hanno la continuità lavorativa necessaria per accedere alla pensione per anzianità contributiva. Se poi si considera che l’età media di pensionamento – oggi pari a 64,2 anni – è destinata a salire ulteriormente in futuro, per via dell’aggiornamento dei requisiti pensionistici per l’aumento dell’attesa di vita, la situazione appare ancora più critica per le lavoratrici che si sono da poco affacciate al mondo del lavoro.

Per quanto il “tasso di sostituzione netto”, cioè il rapporto tra la retribuzione pensionistica netta e l’ultima retribuzione netta da lavoro dipendente o autonomo, non sia significativamente diverso tra donne e uomini (dal 59%-65% in uno scenario prudenziale fino al 70-80% delle carriere più lunghe e continuative), sono proprio la continuità lavorativa e il divario retributivo di genere a giocare a svantaggio delle lavoratrici. Secondo l’edizione 2023 dell’Osservatorio INPS sui lavoratori dipendenti del settore privato[2], la retribuzione media annua degli uomini è infatti pari a 26.227 euro contro i 18.305 euro delle donne, con una differenza di quasi 8.000 euro annui che si traduce inevitabilmente in un assegno più basso per le pensionate. Lo conferma l’ultimo rapporto annuale dell’INPS di settembre, secondo cui nel 2023 la pensione media era pari a 1.750 euro lordi per gli uomini e 1.069 euro lordi per le donne, ossia, rispettivamente, circa 1.430 e 947 euro netti[3].

Una ragione in più per unirsi agli oltre 6 milioni di lavoratori tra i 30 e i 59 anni che hanno già sottoscritto una qualche forma di previdenza integrativa versando, secondo le stime di Moneyfarm, una media di 2.004 euro annui, con valori compresi tra i 1.700 euro delle trentenni e i 2.700 euro dei cinquantenni. Considerando tale versamento medio fino all’età di 67 anni e un maturato medio stimabile in 20.250 euro, la rendita integrativa netta stimata che ci si può attendere da un fondo pensione bilanciato è di circa 295 euro al mese, con valori compresi tra i 231 euro delle cinquantenni e i 350 euro dei trentenni, fermo restando che la tempestività con cui si comincia a creare la propria pensione di scorta rappresenta una variabile chiave.

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