L’anno del Bufalo dell’oroscopo cinese… sarà un Toro

A cura di Andrea Delitala, Head of Euro Multi Asset, e Marco Piersimoni, Senior Investment Manager di Pictet Asset Management

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Ripresa di consenso

Fare previsioni quando una pandemia grava ancora sulle nostre teste richiede un esercizio particolarmente virtuoso dell’analisi degli scenari e delle rispettive probabilità. Eppure, l’inizio del piano delle vaccinazioni a livello globale, l’esito dell’elezioni statunitensi che libera il contesto geopolitico dalla leadership imprevedibile di Trump, il tentativo embrionale (e faticoso) di integrazione fiscale in Europa e, non da ultimi, i massicci stimoli monetari e fiscali implementati in tutti i principali Paesi al mondo portano a cominciare l’anno con un certo grado di ottimismo.

Dopo la pausa imposta a molti settori dell’economia dai ripetuti lockdown nel corso dell’anno passato, il 2021 sembra partire con il piede giusto dal punto di vista della ripresa economica: gli indici delle sorprese macroeconomiche risultano piuttosto tonici (sopra 50) e, anche se la seconda ondata di COVID pesa sull’ultimo trimestre del 2020 e almeno sul primo di quest’anno, gli economisti concordano su una successiva accelerazione. Le previsioni di consenso sono per una crescita del PIL mondiale pari al 5% quest’anno, dopo il -4% dell’anno scorso.

Condividiamo l’ottimismo generale sullo scenario macroeconomico complessivo (le nostre stime per il 2021 sono più alte di oltre mezzo punto), pur ricordando che, anche con il recupero atteso, si profila una perdita permanete di PIL del 4% circa rispetto al trend. Di conseguenza, il divario tra risorse utilizzate e capacità produttiva potenziale rimarrà dolorosamente ampio (soprattutto nel settore dei servizi, fortemente penalizzati dalle misure di distanziamento sociale) e, finché l’output gap non verrà colmato (difficile che avvenga nel 2021), dovrebbero prevalere le pressioni deflazionistiche a livello globale.

Sulla forza relativa della ripresa nelle diverse aree c’è maggiore disparità di opinioni: quasi tutti gli organismi internazionali prevedono un buon rimbalzo dell’economia europea (>4%), superiore a quello USA (<4%). A nostro avviso, invece, l’America gode di un maggior propellente di politica fiscale, specialmente dopo la vittoria blu in Georgia che attribuisce ai Democratici il controllo formale del Senato, pur essendo questo in sostanziale pareggio (a parità di seggi, il voto decisivo viene attribuito alla Vicepresidente Kamala Harris, in qualità di Presidente del Senato). Il budget proposto da Biden è di $2’000 miliardi, di cui $1’000 paiono un target realistico che, combinato anche con il potenziale inespresso di risparmio accumulato, dovrebbe spingere la crescita oltre il 5% e riportare l’attività ai livelli pre-COVID entro i prossimi 2-3 trimestri, facendo rientrare il tasso di disoccupazione al 5% (dall’attuale 6,5% circa).

L’Europa, invece, viaggia al limite della capacità di intervento di politica monetaria e di bilancio. In aggiunta, gli effetti del vaccino e del Recovery and Resilience Facility si faranno attendere ancora almeno fino alla primavera e saranno, in ogni caso, graduali. Per questo motivo, riteniamo che, dopo il calo di oltre il -7% nel 2020, il PIL non torni ai livelli pre-COVID nemmeno nel 2021 (per la previsione sull’anno siamo allineati a quella della Commissione, del 4,2%).
Al contrario, i Paesi emergenti, con la Cina in testa, avendo fatto un maggiore sacrifico collettivo all’inizio della pandemia, ne sono sostanzialmente fuori. O comunque hanno riportato a regime la parte più importante della loro economia, rappresentata dal settore manifatturiero. Infatti, abbiamo constatato come la produzione industriale abbia superato (del 5%) i livelli di fine 2019 nell’Impero Celeste, che produce il 25% dei manufatti mondiali: stimiamo, quindi, che il PIL cinese cresca del +9,5% nel 2021, con una forte accelerazione dal 2% del 2020.

Per la buona continuazione della ripresa risulterà dunque cruciale il contributo del commercio internazionale. La Cina ha riempito il vuoto di leadership internazionale lasciato dagli USA di Trump, siglando accordi importanti con i Paesi dell’area asiatica, come ad esempio il RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership), il patto di libero scambio più grande al mondo che rappresenterà il 30% dell’economia e della popolazione globale e raggiungerà 2,2 miliardi di consumatori. Resterà da vedere come il Presidente neoeletto Biden riuscirà a riprendere in mano la situazione, cercando di difendere gli interessi statunitensi in modo più efficace e meno effimero di quanto non possa fare una politica protezionistica. Contiamo su un approccio multilaterale e speriamo in una luna di miele anche in politica estera.

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I rischi: pandemia e inflazione

Con il rallentamento delle consegne di Pfizer, abbiamo assistito al primo flusso di notizie negativo legato al principale antidoto alla pandemia: dopo aver incorporato le buone notizie su efficacia e tempi di approvazione dei principali vaccini, il mercato risulta oggi vulnerabile a qualche rallentamento nella consegna o nella somministrazione degli stessi. Inoltre, non tutti i cittadini sono propensi a farsi vaccinare da subito.

In definitiva, il maggior rischio per l’attività economica rimane legato alla dinamica della pandemia e dei lockdown, sempre meno convincenti ma, temiamo, necessari ancora per un po’. Stando alle ultime stime, la tanto agognata immunità di gregge non arriverà, infatti, prima di 1 anno da oggi e, quindi, la riapertura sarà graduale e a scaglioni per i diversi settori: il risultato saranno economie a diverse velocità tra loro e al loro interno.

Il rischio principale sull’upside, cioè legato a una crescita migliore del previsto, proviene dalla possibilità che la ripresa economica provochi un surriscaldamento dei prezzi, ovvero inflazione. Sarebbe una novità, in parte benvenuta dopo anni di frustrazione caratterizzati da politiche monetarie incapaci di conseguire il loro obbiettivo d’inflazione del 2%, nonostante gli sforzi e la creatività nell’ideare misure eterodosse (QE, LTRO, etc). Oggi la spinta sulla domanda è affidata alla politica di bilancio che è certamente più efficace e diretta di quella monetaria, sia (e soprattutto) se interviene con investimenti pubblici sia che lo faccia mediante trasferimenti a persone e aziende. Anzi, proprio l’accumulo di disponibilità liquide, visibile per esempio nell’esplosione dei depositi nei conti correnti e degli investimenti negli strumenti del mercato monetario negli Stati Uniti, è indizio di una domanda potenziale, che alla fine delle restrizioni legate al COVID, potrebbe riversarsi su un’offerta insufficiente e provocare una fiammata eccessiva ed incontrollata dei prezzi.

Infatti, siamo in una situazione con pochi precedenti, in cui l’eccesso di capacità produttiva è distribuito in modo asimmetrico (nei servizi più che nei prodotti): l’output gap si è già quasi richiuso in settori come quello IT e in alcune aree manifatturiere, mentre per molti servizi si dovrà erodere lentamente tramite la perdita di capacità dell’offerta. E, siccome la transizione di risorse tra settori così diversi sarà ben più lenta dell’evoluzione nella domanda, non si può escludere un’inflazione localizzata da eccesso di domanda.

E che dire del costo dei fattori produttivi? Esiste il rischio di inflazione da costi?
Il complesso delle materie prime non mostra una dinamica esplosiva al momento, ma il prezzo dei prodotti agricoli negli ultimi mesi è salito del 20% e il rame del 35% (con un balzo del 20% solo da novembre ad oggi). Resta essenzialmente deflazionistico, invece, il settore energetico dei derivati del petrolio, danneggiato sia congiunturalmente che a livello secolare dalla transizione verso mix energetici più verdi. Quindi, non si può escludere la comparsa di inflazione selettiva da costi.

A questa si potrebbe aggiungere un po’ di inflazione salariale, almeno negli USA, dove tra le misure appena annunciate da Biden vi è infatti l’aumento del salario minimo orario da 7,25$ a 15$. D’altro canto, per l’America, meno dotata di ammortizzatori sociali, è necessario più che altrove compensare l’aumento delle disuguaglianze, già manifeste prima della pandemia ma esasperate da questo shock: il COVID è, infatti, iniquo e colpisce in misura maggiore i ceti sociali meno abbienti, gravando soprattutto sulle classi di lavoratori a basso reddito ed istruzione. E questo è un tema talmente evidente e condiviso, da meritare, crediamo, un sostegno bi-partisan che consenta di essere affrontato favorevolmente anche in un Senato sostanzialmente diviso a metà tra i due schieramenti.

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Le implicazioni per i mercati azionari

Lo scenario descritto costituisce una cornice favorevole agli investimenti azionari, sorretti da una dinamica robusta degli utili societari, per i quali gli analisti prevedono una crescita di oltre il 25% (in linea con le nostre stime). Le performance, però, difficilmente rifletteranno interamente l’andamento degli utili, che è in buona parte già scontato. Il mercato, infatti, assorbe le grandi oscillazioni cicliche previste nei profitti aziendali con un aggiustamento contrario nel rapporto Prezzo/Utili (P/E): nel 2021 le valutazioni caleranno, invertendo il contributo alla performance ampiamente positivo del 2020 (l’anno scorso abbiamo assistito a un rerating del 30% che ha più che compensato il calo degli utili del -15%).

Questo andamento anticiclico delle valutazioni può essere amplificato da un altro importante fattore, la liquidità complessiva immessa nel sistema dalle banche centrali e dal settore finanziario. Particolarmente rilevante sarà l’andamento di questo aggregato in eccesso rispetto alla liquidità assorbita dal funzionamento del sistema economico: la cosiddetta excess liquidity, che si misura sottraendo l’andamento della produzione industriale e dei prezzi alla produzione (proxy del PIL) alla dinamica della liquidità aggregata creata sia dal sistema finanziario sia dai prestiti tra operatori privati. L’andamento dell’excess liquidity perciò dipende in positivo dalla creazione di liquidità e in negativo dalla crescita economica. Per quanto riguarda la liquidità, questa ha già superato il punto di massima crescita e sta rallentando, principalmente a causa della Cina; in corso d’anno, continuerà a rallentare più o meno bruscamente a causa di un eventuale tapering anticipato della Fed (ma assumiamo che se ne parli solo nel 2022, per ora). Di conseguenza, se l’economia crescerà globalmente al 5%, ad un certo punto supererà il ritmo di generazione di nuova liquidità e l’excess liquidity non solo rallenterà, ma comincerà a fare marcia indietro e quindi a frenare le valutazioni dei mercati finanziari.

Abbiamo già imparato nel 2018 che il buon andamento economico non è condizione sufficiente per le performance azionarie: anche allora gli utili erano saliti del 14%, ma le valutazioni erano scese del 23% con un risultato netto negativo per le performace azionarie. Nello scenario di base, il 2021 sarà un anno in cui i contributi delle rispettive componenti dovrebbero avere lo stesso segno registrato nel 2018, ma saldo molto migliore: ci aspettiamo performance azionarie positive attorno al +10-15%, scomponibili in +25% degli utili e -10-15% di derating.

Tuttavia, occorre prestare attenzione al fatto che, in base alle nostre stime, ogni mese di lockdown in più in Europa costa circa il 7% in meno in termini di utili. A maggior ragione, è necessario che le politiche monetarie non affrettino ma semmai ritardino a non prima del 2022, i tempi dell’exit strategy. Solo il rischio di inflazione commentato in precedenza potrebbe mettere in discussione questo paradigma condiviso.

A livello regionale, il diverso orologio economico potrebbe favorire gli indici emergenti dal punto di vista strutturale, mentre quelli USA nella prima parte dell’anno saranno spinti dalla nuova spesa pubblica e dall’impatto positivo dell’insediamento della nuova amministrazione. Europa e Giappone, invece, potranno recuperare terreno quando terminerà definitivamente la stagione dei lockdown intermittenti e si ricomincerà a viaggiare.

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L’evoluzione delle politiche economiche

L’anomalia di questo ciclo, fatto di stop and go, e l’atteggiamento fortemente pro-ciclico delle politiche economiche rappresentano un’opportunità immediata, ed al tempo stesso un rischio futuro per gli investimenti finanziari. Focalizzandoci negli Stati Uniti, il policy mix basato sulla cooperazione tra politica fiscale e monetaria unisce la spinta ciclica alla repressione finanziaria, misurabile nella compressione dei rendimenti reali in territorio negativo (-1% per il TIPS decennale, il titolo di Stato USA protetto dall’inflazione). I tassi e i rendimenti reali negativi su tutte le scadenze rappresentano il principale supporto alle valutazioni finanziarie dalla metà dell’anno scorso ad oggi; e dai movimenti di questa curva dipenderanno le sorti del 2021.

Il ritorno dell’inflazione verso l’obbiettivo del 2% (dall’1,4% dell’ultimo dato di novembre del Core PCE deflator), è previsto sia dalla Fed che dal mercato, che sconta anche un superamento di questa soglia già nel 2022. Tuttavia, finché il tasso d’inflazione si manterrà entro il 2,5%, come sancito da Powell con l’annuncio del Flexible Average Inflation Targeting, la Fed sarà tollerante e attendista nel normalizzare la politica monetaria, intervenendo dapprima sul ritmo del QE e solo in seguito sui tassi. In tal caso, la parte a lunga scadenza del mercato obbligazionario ne soffrirebbe solo gradualmente e la Fed potrebbe persino opporsi alla risalita dei tassi a lunga (e a curve più ripide) con interventi mirati (tipo Twist o Yield Curve Control, YCC). I rendimenti reali resterebbero ancorati in territorio negativo e lo scenario resterebbe costruttivo per gli investimenti azionari e per le materie prime. Persino per i corporate bond sarebbe ancora accettabile, nonostante le valutazioni siano già oggi tirate e compatibili con tassi di default possibili solo nella migliore delle ipotesi.

Ma che succede se l’inflazione supera anche la nuova soglia di tolleranza della Fed (2,5%)? La Fed ci ha risposto con le parole di Clarida: sopra quella soglia, posto che il mercato del lavoro sia risanato (immaginiamo verso la fine dell’anno), la Fed cambierebbe atteggiamento adottando la cosiddetta regola di Taylor, la cui principale caratteristica è quella di prescrivere rialzi dei tassi d’interesse superiori al tasso d’inflazione (pari, in particolare, a circa una volta e mezza l’entità di quest’ultimo; per esempio: in corrispondenza di un tasso di inflazione del +0,5%, la regola di Taylor prescrive un rialzo dello +0,75%).
Sebbene applicata in modo inerziale, l’incorporazione nelle aspettative del mercato dell’adozione di questo nuovo paradigma avrebbe la conseguenza principale di infrangere lo scenario dei tassi reali bassi per sempre. Per ora il movimento sui tassi reali è stato impercettibile: il ‘reflation trade’, iniziato con i vaccini a novembre e proseguito con la mini-onda blu a gennaio, ha impresso un rialzo a tutta la struttura a termine dei tassi nominali USA, con il rendimento del T-Note oltre l’1%, ma questo è largamente spiegato dal rialzo dell’inflazione attesa (breakeven inflation) oltre il 2%. I tassi reali a 10 anni sono dunque fermi a -1%, mentre sono addirittura scesi quelli a 5 anni; di fatto, sono saliti solo quelli a termine (5y5y), da -1% a -0,7%.

Finché i tassi reali a termine resteranno negativi e/o i rialzi saranno graduali e riconducibili al miglioramento delle previsioni di crescita, i mercati degli attivi rischiosi (azioni in primis, dati i premi di rischio generosi) non ne soffriranno. Ma quando i mercati avvertiranno l’avvicinarsi del cambio di paradigma da parte della Fed da Price Level Targeting a regola di Taylor, avranno motivo di fibrillare. Un importante segnale sarà dato dalla stima del tasso neutrale fornita dalla stessa Fed. Attualmente, tale tasso, che indica il livello del tasso reale che non è né di freno né di stimolo per l’economia, è allo 0%, ma quando risalirà verso il valore di lungo periodo (stimato in 0,75% dalla stessa Fed) allora la banca centrale non farà più la sponda del Tesoro, finanziando la spesa pubblica a tassi reali negativi: il policy mix da cooperativo tornerà antagonistico.

Bisogna pure tener presente che il punto di partenza delle valutazioni oggi rende molto asimmetrici i rischi sul cammino della normalizzazione: ogni ostacolo o freno alla crescita danneggerebbe le aspettative di utili più di quanto una riduzione dei tassi possa a questo punto compensare, trovandosi di fatto al limite inferiore. Allo stesso modo, un risveglio dell’inflazione tale da mettere in imbarazzo l’atteggiamento gradualista delle banche centrali creerebbe turbolenze maggiori che in passato, prima sui bond nominali poi sulle altre asset class.
Un elemento da tenere sotto controllo è la crescita esponenziale della partecipazione degli investitori retail, soprattutto nel mercato delle opzioni. Si tratta di un fatto non del tutto nuovo, spesso associato alla genesi di bolle speculative, sul quale abbiamo ancora molto da capire. Certo è che alcuni movimenti erratici estivi e all’inizio di quest’anno possono essere stati esasperati dalla maggiore presenza di investitori inesperti, più emotivi e meno price-sensitive. Infine, anche i gestori istituzionali hanno una visione molto ‘omologata’ del mondo e quindi portafogli simili, in buona parte obbligati dal policy mix. Un fattore che porterà in prospettiva a regimi alterni di volatilità.


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