La pandemia ha modificato la gestione dell’ictus

L’emergenza COVID e la necessità di farvi fronte, anche attraverso le linee guida nazionali promulgate dal Ministero della Salute, hanno portato a una profonda ristrutturazione – in tempi strettissimi – del sistema ospedaliero italiano: posti letto medici, chirurgici e specialistici sono stati riconvertiti per la cura dei pazienti COVID-19 e, per far fronte al carico crescente di pazienti in gravi condizioni, sono stati aumentati i posti letto in Terapia Intensiva. Questo ha, inevitabilmente, portato alla chiusura di interi reparti o settori e ha determinato un impatto sulla gestione delle patologie “ordinarie”, che è stata adattata alle condizioni straordinarie in cui si doveva operare. Anche in tempi di pandemia, però, un sistema sanitario nazionale deve garantire i migliori servizi possibili ai pazienti affetti da malattie non trasmissibili. In particolare, mantenendo la sua capacità di operare in modo efficace soprattutto per quei pazienti con condizioni acute come ictus e infarto del miocardio, in cui i trattamenti applicabili sono sempre tempo-dipendenti.

Come la pandemia causata dal COVID-19 abbia modificato la gestione dell’ictus acuto nel nostro Paese è il tema al centro di un articolo (che ha come principale Autore la Dottoressa Marialuisa Zedde, neurologa presso l’Azienda Unità Sanitaria Locale – IRCCS di Reggio Emilia) intitolato “Stroke care in Italy: An overview of strategies to manage acute stroke in COVID-19 time” (“Il percorso dell’ictus in Italia: panoramica sulle strategie necessarie per gestire l’ictus acuto durante la pandemia CODIV-19”), recentemente pubblicato sull’European Stroke Journal e scritto da un gruppo di neurologi vascolari italiani con ruoli di spicco nelle principali società scientifiche cerebrovascolari italiane ed europee, con il coinvolgimento della Federazione A.L.I.Ce. Italia Odv (Associazione per la Lotta All’Ictus Cerebrale) in rappresentanza delle persone colpite da ictus e di tutte le figure che vi ruotano attorno.

Il sistema sanitario italiano si configura fortemente decentralizzato in favore degli Enti di governo regionale, quindi tra le diverse Regioni i protocolli relativi al trattamento e alla cura dell’ictus possono differire in modo significativo, così come è stata differente anche la risposta organizzativa alla pandemia, peraltro in Regioni che hanno avuto un differente impatto del COVID-19.

In Italia, si stima che, ogni anno, circa 120.000 persone vengano colpite da ictus, che si conferma la principale causa di disabilità e la seconda di demenza, con perdita di indipendenza nelle attività quotidiane. Il paziente con ictus acuto deve essere trattato in Unità di Terapia Neurovascolare o Stroke Unit, che, ad oggi, hanno raggiunto il numero di 190 sul territorio nazionale. Nel corso del 2018, le tre Regioni italiane che ad oggi sono state maggiormente colpite dalla pandemia (cioè Lombardia, Emilia Romagna e Veneto) hanno effettuato più di 4.500 trattamenti di trombolisi e oltre 1.700 trattamenti endovascolari che corrispondono al 36,5% e al 41,2%, rispettivamente, di tutti i trattamenti effettuati in tutto il Paese.

L’emergenza COVID-19 ha improvvisamente modificato la geografia delle Stroke Unit, soprattutto nelle Regioni più colpite dalla pandemia: in Lombardia, ad esempio, abbiamo assistito ad una riduzione del numero di Stroke Unit operative da 28 a 10 Unità e ad una conseguente riorganizzazione dell’assistenza e del trasporto in fase pre-ospedaliera. In altre Regioni, invece, come ad esempio l’Emilia Romagna, la riorganizzazione delle reti è avvenuta nelle singole aziende ospedaliere o per aree vaste, con minori variazioni rispetto all’organizzazione lombarda.

“La pandemia da COVID-19 ci ha messo di fronte ad una grande sfida nella gestione dei pazienti con ictus acuto – ha dichiarato la Prof.ssa Valeria Caso, neurologa presso la Stroke Unit dell’Ospedale di Perugia, Past President European Stroke Organisation e supervisore dell’articolo. Ci sono però alcune considerazioni da tenere ben presenti: l’ictus è un’emergenza sanitaria ma, anche nel corso della pandemia, è stato garantito un trattamento di alto livello. In caso di una seconda ondata, i pazienti colpiti da questa patologia saranno gestiti con un “codice di protezione ictus” per evitare l’infezione e questa gestione si protrarrà anche durante gli eventuali trattamenti. Infine, gli sviluppi tecnologici della telemedicina, già applicata alla cura dell’ictus acuto in forma di telestroke in quei territori che sono geograficamente svantaggiati, possono sicuramente offrire – in alcuni casi – uno strumento adeguato per una corretta gestione anche del paziente cronico”.

L’emergenza COVID, con le necessarie misure di distanziamento sociale e la inevitabile paura della popolazione a recarsi in ospedale o a contattare il servizio di emergenza territoriale, ha portato a un significativo calo del numero di ricoveri per ictus e, quindi, dei pazienti trattati, rispetto ai numeri dello stesso periodo di un anno fa. Non solo: molti pazienti sono arrivati in una fase già avanzata di malattia, spesso con situazioni di maggiore gravità. Questo fenomeno, anche se non sistematicamente, è stato osservato e riportato dai team neuro-vascolari in tutta Italia e trova dei parallelismi anche in ambito cardiologico.

L’analisi dell’Istituto Superiore di Sanità sui primi 3.200 pazienti deceduti durante la pandemia ha confermato un profilo di rischio principalmente sovrapposto alla popolazione ad alto rischio di ictus: età media 78,5 anni; 30% con storia di cardiopatia ischemica, 22% di fibrillazione atriale, 73,8% di ipertensione e 33% di diabete mellito. Un altro aspetto è il verificarsi dell’ictus in pazienti già ricoverati a causa di COVID- 19: si è trattato spesso di chi versava in gravi condizioni e la gestione di queste persone, a partire dal sospetto diagnostico, è risultata particolarmente complessa.

Il COVID-19 ha rappresentato e ancora rappresenta una sfida per il sistema sanitario italiano e, di conseguenza, ha portato ad una radicale riorganizzazione dei percorsi regionali dell’ictus. In caso di una seconda ondata pandemica, i percorsi di trattamento dell’ictus dovranno essere abbastanza flessibili in modo da poter essere riadattati per il trattamento della fase acuta, la prevenzione secondaria e la riabilitazione attraverso l’uso della telemedicina, al fine di garantire il diritto di accesso alle cure della popolazione.


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