I “fili invisibili” che collegano l’intestino al cervello

È stato pubblicato lo scorso maggio su Scientific Reports uno studio condotto dai ricercatori di Istituto Pasteur Italia e Sapienza Università di Roma che fa luce sui “fili invisibili” che collegano l’intestino al cervello e che contribuisce a chiarire come il microbiota influenzi la nostra salute.

Il microbiota è una collezione di microrganismi residenti nei vari distretti del nostro corpo. Abbiamo, per esempio, il microbiota della pelle, il microbiota vaginale, quello degli occhi e delle vie respiratorie. Il microbiota intestinale, nello specifico, è un ecosistema composto da funghi, virus e batteri che si sono adattati a vivere sulla superficie dell’intestino, sviluppandosi immediatamente dopo la nascita. Alcuni studi (tra cui quest’ultimo) indicano anche l’esistenza di un microbiota del sangue, che viene considerato come un vero e proprio “organo liquido”.

 

Il microbiota si è evoluto insieme all’uomo nel corso dei millenni, tanto che il normale funzionamento del nostro sistema digestivo e di quello immunitario dipende dalla presenza di batteri “buoni” non patogeni. Ci sono migliaia di specie batteriche dentro, sopra di noi e nell’ambiente in cui viviamo con le quali si è instaurato un “rapporto mutualistico” dove un’alterazione della composizione può determinare un collasso del sistema con possibili ripercussioni per l’organismo. Il ruolo più importante nel regolare i vari equilibri tra i diversi organi del corpo umano – i cosiddetti “assi” intestino-cervello, intestino-fegato, intestino-cute etc. – lo svolge proprio il microbiota intestinale. Lo stato di salute dei batteri che popolano il nostro intestino è dunque collegato a quello di altri organi, come il fegato e il cervello.  Determinate malattie si possono manifestare a causa di fattori disturbanti, come per esempio diete sbilanciate, assunzione di antibiotici, sedentarietà o troppa igiene, fattori genetici ed epigenetici, che agiscono di concerto a modificare la composizione del microbiota.

Un recente studio condotto da Valerio Iebba, giovane ricercatore dell’Istituto Pasteur Italia e di Sapienza Università di Roma, utilizza un nuovo approccio sperimentale per descrivere le alterazioni del microbiota in pazienti affetti da cirrosi epatica (malattia degenerativa e cronica del fegato) che si riflettono anche sul cervello. Il lavoro che si avvale della collaborazione di Massimo Levrero (Istituto Italiano di Tecnologia, Roma), e di Manuela Merli e Serena Schippa (Sapienza Università di Roma), è stato pubblicato lo scorso maggio su Scientific Reports.

“Nei soggetti con cirrosi epatica – spiega Valerio Iebba – si verifica un’alterazione del microbiota intestinale tale che batteri patogeni crescono in maniera massiccia e a discapito di quelli benefici. Questi batteri “cattivi”, o i prodotti del loro metabolismo, possono traslocare attraverso il sistema portale dall’intestino al fegato. Qui contribuiscono allo sviluppo di uno stato infiammativo cronico e all’incapacità di smaltire le tossine presenti nel sangue tipica di molte complicanze in pazienti con cirrosi. Una di queste complicanze si manifesta addirittura a livello del cervello: è l’encefalopatia epatica, un malfunzionamento del sistema nervoso che può dare luogo a problemi motori, sensoriali o mentali”. 

 

Il sistema venoso che collega l’intestino al fegato agisce quindi come una sorta di autostrada che permette ai batteri e ai loro metaboliti di giungere al fegato. Quando la composizione dei batteri è spostata a favore di quelli “cattivi” si viene a creare uno squilibrio tale da influenzare in maniera negativa le funzioni di altri organi, come il cervello. Conoscere quali batteri si spostano dall’intestino al fegato in condizioni di salute o di malattia risulta dunque essenziale nella gestione delle complicanze delle malattie croniche epatiche – per prevenire le alterazioni patologiche del microbiota oppure, in casi più gravi, per cercare di ripristinare l’equilibrio a favore dei batteri “buoni”.

“Noi ricercatori di Sapienza e Istituto Pasteur Italia abbiamo scelto di utilizzare un nuovo approccio sperimentale che combina lo studio della sequenza del DNA dei batteri, con quello delle impronte chimiche che i microbi lasciano con i prodotti del loro metabolismo. Questo approccio è stato applicato allo studio del microbiota in biopsie di fegato, nelle feci e nel sangue sia di pazienti affetti da cirrosi che di individui sani. Grazie a questa analisi siamo stati in grado di associare alcune specie di batteri e metaboliti non solo al grado di infiammazione sistemica, ma anche al rischio di sviluppare encefalopatia epatica” – conclude Valerio Iebba.

 

Lo studio fornisce un’indicazione in più a favore dell’evidenza che vi sia un “filo” che collega l’intestino al cervello e suggerisce che alcuni specifici probiotici (batteri buoni assunti come integratori) possano intervenire positivamente, nel caso dei pazienti affetti da cirrosi, limitando e prevenendo l’insorgere dell’encefalopatia epatica.  Futuri studi come questo cercheranno di scoprire, almeno in parte, i “fili invisibili” che collegano l’intestino ad altri organi.


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