Impiantati su 50enne gli embrioni del marito morto

Ci sono decisioni che fanno discutere per le implicazioni etiche che sovente determinano. Tra i casi più frequenti vi sono quelli che riguardano il diritto alla procreazione e di crescere ed avere dei figli, che a parere di Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, non deve essere mortificato, quando la scienza medica può dare una mano, specie quando si tratta del rapporto tra mogli e marito, anche quando uno dei due coniugi risulta essere deceduto.

Ed è così che segnaliamo il caso di una donna di cinquant’anni, a cui il Tribunale di Bologna ha concesso di provare a diventare madre tramite il trasferimento intrauterino degli embrioni congelati, quasi vent’anni orsono, nonostante il policlinico si opponesse a tale pratica perché il marito della donna nel frattempo è morto.

Con l’ordinanza del giudice del Tribunale emiliano è stato, infatti, accolto il ricorso della donna che si era vista negare la procedura. Per il togato l’ospedale deve impiantare alla moglie gli embrioni congelati anche dopo la morte del marito.

Tale conseguenza è dovuta al fatto che le linee guida sulle fecondazioni assistite anteriori alla legge 40 consentono il diritto a ottenere il trasferimento intrauterino se è escluso lo stato di abbandono.

E ciò perché la donna ha sempre diritto all’impianto quando lo stato di abbandono degli embrioni crioconservati risulta escluso.

LA VICENDA

La vicenda aveva avuto inizio nel 1996, quando la coppia si era rivolta al centro di fecondazione assistita dell’ospedale per un intervento, ma l’impianto non aveva avuto buon fine. Otto embrioni non impiantati erano stati però congelati con il consenso dei due. In seguito l’uomo si era ammalato e i coniugi non avevano più ritentato la procreazione medicalmente assistita con la tecnica della fecondazione in vitro (Fivet). Gli embrioni erano così rimasti crioconservati e fino al 2010 la coppia aveva confermato la volontà di mantenerli.

A seguito della morte del marito accaduta nel 2011, la donna si era nuovamente rivolta all’azienda ospedaliera ma si era vista opporre il rifiuto al trasferimento intrauterino nonostante il nulla osta del comitato di bioetica dell’Università: ciò in virtù dell’interpretazione della legge 40 secondo cui dovrebbe sussistere la permanenza in vita di entrambi i coniugi.

A febbraio 2012 era stato proposto ricorso d’urgenza secondo l’articolo 700 Cpc, rigettato dal giudice. Ma il successivo reclamo era stato accolto dal Tribunale, anche se la dichiarazione sottoscritta nel luglio 2010 non si può considerare un valido consenso: «Manca, infatti, ictu oculi, un’espressa, inequivoca ed attuale dichiarazione di volontà dei coniugi volta ad ottenere il trasferimento degli embrioni prodotti».

Il Tribunale rileva però il fatto che l’atto sottoscritto sul modulo fornito dall’ospedale serve a escludere che quegli embrioni crioconservati siano in stato di abbandono.

Decisive risultano le linee guida della legge 40/2004 che servono proprio a dettare norme transitorie per le fecondazioni assistite avvenute prima della sua entrata in vigore e che devono essere considerate normativa di rango primario, in quanto fatte proprie dalla stessa fonte legislativa tramite la tecnica del rinvio, grazie al richiamo contenuto all’articolo 7.

Lo stato di non abbandono si presume, scrivono i giudici: la normativa vigente richiede un’esplicita volontà dei coniugi di senso contrario.

In conclusione i giudici scrivono che, vista l’età della donna, l’aleatorietà dei risultati della fecondazione assistita e le maggiori difficoltà proporzionate al progredire dell’età, è necessario provvedere in via d’urgenza, non potendo la cinquantenne «attendere il normale esito di un procedimento civile ordinario, stante la sua lunga durata».

(Giovanni D’Agata)


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